ciclo di incontri - Ottobre 1999
Quaderno n. 78
Leggiamo la Scrittura. Genesi e Esodo
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Dopo Babele:
le lingue tra universalità e particolarità


Giuliano Bernini

«Ora tutta la terra era di un labbro solo e di uguali parole; e avvenne, nel loro vagare dalla parte di oriente, che gli uomini trovarono una pianura nel paese di Sennar, vi si stabilirono e si dissero l’un l’altro: “Orsù facciamoci dei mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì loro invece della pietra e il bitume invece della malta. Poi essi dissero: “Orsù costruiamoci una città con una torre la cui cima sia nei cieli e facciamoci un  nome per non essere dispersi sulla superficie di tutta la terra”. Ma il Signore discese per vedere la città con la torre che stavano costruendo i figli dell’uomo. E il Signore disse: “Ecco che essi sono un solo popolo e un labbro solo è per tutti loro. Questo è il loro inizio nelle imprese. Ormai tutto ciò che hanno meditato di fare non sarà loro impossibile. Orsù discendiamo e confondiamo laggiù la loro lingua, cosicché essi non comprendano più la lingua l’uno dell’altro”. Il Signore li disperse di là sulla superficie di tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo il suo nome fu detto Babele, perché là il Signore mescolò il labbro di tutta la terra; e di là il Signore li disperse sulla superficie di tutta la terra.» (Genesi 11, 1-9)

Due parole a commento di questo brano.

Regola fondamentale nella lettura di un testo è leggerlo all’interno del suo contesto. Il cap. 11 viene dopo il cap. 10, nel quale, a proposito della nuova creazione seguita al diluvio universale, vi è l’elenco delle oltre settanta nazioni in cui vengono separati gli uomini. Si tratta delle popolazioni discendenti da Iafet, ognuna nei propri territori e secondo la propria lingua, di quelle discendenti da Cam e di quelle discendenti da Sem. Il filo conduttore del racconto è la diversità voluta da Dio, che già si trovava nel racconto della creazione di Gen. 1, in cui il verbo ricorrente è, non a caso, «separare». Si confrontino i testi: «Dio disse: “Produca la terra animali viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e animali selvatici della terra, secondo la loro specie”» (Gen 1,24) e «Questi sono i figli di Sem, secondo le loro famiglie, secondo le loro lingue, nei loro paesi, secondo le loro nazioni. Queste sono le famiglie dei figli di Noè, secondo le loro generazioni, nelle loro nazioni; da essi uscirono le nazioni che si sparsero sulla terra dopo il diluvio.» (Gen 10,31-32).

In questo contesto, le linee di interpretazione della pericope di Babele, sia nella tradizione ebraica sia in quella cristiana, sono due: la prima, più accreditata fino a poco tempo fa, vede l’episodio di Babele in un’ottica punitiva, mentre la seconda considera la diversità come caratteristica voluta da Dio e la divisione delle lingue come una benedizione, anziché un castigo. L’azione degli uomini nella città è la seguente: facciamoci dei mattoni, costruiamoci una città, facciamoci un nome. Si tratta in sostanza di un peccato originale, da intendersi non tanto come un peccato che sta all’inizio cronologico, ma come un peccato di principio, un peccato intrinseco all’uomo, quello cioè di volersi porre sullo stesso piano di Dio. Come la prima coppia vuole diventare come Dio, così qui gli uomini vogliono costruire una città per se stessi e farsi un nome per se stessi: opponendosi al disegno di Dio, che ha creato la diversità (cap. 10), gli uomini hanno una sola lingua, un solo nome per la propria gloria. Anziché rendere gloria a Dio, essi rendono gloria al proprio nome; pertanto la discesa del Signore sulla terra, nel suo intento di confondere le lingue e di ricreare la differenza, non è da leggersi come un castigo, ma come un intervento di Dio che, fedele a se stesso e alla propria opera creatrice, ricostituisce la differenza originaria. Che non si tratti di un’interpretazione bizzarra, lo dimostra l’inizio del cap. 12, quando il Signore dice ad Abramo: «Va' via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va' nel paese che io ti mostrerò; io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai fonte di benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò chi ti maledirà, e in te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,1-3). È evidente la contrapposizione tra l’autodeterminazione degli uomini di Babele (facciamoci, costruiamoci) e l’eterodeterminazione di Abramo (vai dove io ti mostrerò).

Il mio intervento prenderà spunto proprio dal racconto di un tentativo di un gruppo umano di costruire una torre per affermare se stesso e della conseguente confusione delle lingue indotta in questo gruppo dall’intervento divino, per evitare un’affermazione che andasse oltre le prerogative umane. È noto che, nell’immaginario collettivo, questo racconto viene posto a fondamento della contraddizione che noi, in quanto esseri umani, viviamo dal punto di vista linguistico: da un lato, il linguaggio umano come fenomeno unitario che caratterizza tutti gli esseri umani, dall’altro, l’estrema varietà delle lingue umane, così come ci appaiono nel contatto tra i diversi popoli.

Tenendo presente questi due aspetti della questione, svilupperò un percorso di riflessione che si focalizzerà, da una parte, sull’aspetto dell’universalità (a.-b.) e, dall’altra, sull’aspetto della varietà (c.); alla fine arriveremo a un paradosso (d.), legato molto bene alla vicenda di Babele vista come benedizione, che tutti stiamo vivendo, cioè un possibile ritorno a Babele nell’arco di circa 150 anni.

 

a. L’organizzazione della grammatica: Universali e Tipologia

Riferimenti bibliografici:

Comrie, Bernard, 1983, Universali del linguaggio e tipologia linguistica, Bologna, Il Mulino; Ramat, Paolo / Cristofaro, Sonia (a cura di), 1999, La tipologia linguistica, Roma, Carocci.

L’aspetto prebabelico delle lingue, quello dell’universalità, lo si può cogliere nel fatto che, al di là della loro estrema varietà, tutte le lingue sembrano rispondere ad una serie di principi imprescindibili in base ai quali sono strutturate e che permettono a tutti gli esseri umani di apprendere una lingua diversa da quella madre. Alcuni di questi principi sono assoluti, cioè valgono universalmente per tutte le lingue, altri sono invece implicazionali, cioè mettono in relazione di implicazione alcune caratteristiche della grammatica.

1. Un esempio di universale assoluto è il fatto che tutte le lingue hanno vocali orali, cioè suoni prodotte attraverso la bocca e non attraverso la cavità nasale; se alcune, come l’italiano, hanno solo vocali orali, mentre altre, come il francese, hanno sia vocali orali sia vocali nasali, non sono attestate lingue che abbiano solo vocali nasali, pur non essendoci, di per sé, nessun impedimento fisico per la loro pronuncia. Riassumendo:

a.    Lingue con solo vocali orali, p. es. italiano [i e ­ a ± o u]

b.    Lingue con vocali orali e nasali, p. es. francese [m­] mes “miei”, main “mano”

c.    Lingue con solo vocali nasali: non attestate.

2. Il secondo tipo di principi è sicuramente più pregante per la costituzione delle lingua. Gli universali implicazionali limitano la possibilità di variazione linguistica, ponendo delle limitazioni ai tipi di lingua logicamente possibili. Ci sono lingue, per esempio, che hanno come ordine dominante della frase la disposizione Verbo, Soggetto, Oggetto (VSO): mentre in italiano si dice: “Pierino mangia la mela”, queste lingue dicono: “Mangia Pierino la mela”. Questo genere di lingue ha sempre delle preposizioni (es. “in casa”). Correlando queste caratteristiche, cioè i diversi tipi di ordine delle parole e la presenza o meno di preposizioni, si ottiene lo schema seguente:

VSO               Preposizioni           Tipi di lingue (esempi)

 +                        +                verbo iniziale e preposizioni gallese, arabo)

 +                        -                 verbo iniziale e posposizioni: non attestato

  -                         +                SVO, SOV e preposizioni (italiano, persiano)

  -                         -                 SVO, SOV e posposizioni (finnico, giapponese)

 

Come si vede, ci sono diversi tipi di combinazione, ma una di queste è necessariamente esclusa: ci sono lingue che dicono “Mangia Pierino la mela in casa” (gallese, arabo classico), altre che dicono “Pierino mangia la mela in casa” (italiano), altre ancora “Pierino la mela mangia in casa” (persiano), altre “Pierino mangia la mela casa in” (finnico), altre infine “Pierino la mela mangia casa in” (giapponese), ma non c’è nessuna lingua che riesce a dire “Mangia Pierino la mela casa in”.

Queste considerazioni, apparentemente stravaganti, sono un indizio del fatto che la confusione babelica non poi così confusa, ma ha delle linee di restrizione che non rendono il tutto anarchico.

3. Gli universali implicazionali, se metodologicamente verificati, permettono di riconoscere tra le lingue alcuni tipi armonici di ordinamento dei costituendi della frase, che possono essere così identificati:

a)  Verbo Oggetto, Nome Aggettivo, Nome Genitivo, Preposizione Nome, Nome Relativa

b)  Oggetto Verbo, Aggettivo Nome, Genitivo Nome, Nome Posposizione, Relativa Nome

Secondo questo schema, si trovano sempre le stesse disposizioni della parte fondamentale di un costituente della frase e dei suoi modificatori (le specificazioni). “Mangiare” ha un significato ampio, “mangiare una mela” ha un significato più ristretto (una mela è una specificazione); l’italiano dice “mangiare una mela”, altre lingue dicono “una mela mangiare” (giapponese). Le lingue che dicono “mangiare una mela” (punto a) tendono anche a mettere l’aggettivo dopo il nome (“casa grande”), il complemento di specificazione dopo il nome (“casa di Giovanni”), la preposizione prima del nome (“in casa”), le relative dopo il nome (“la casa che hai visto ieri”); le lingue che hanno come schema di base “una mela mangiare” (punto b) fanno esattamente il contrario (“bianca casa”, “Giovanni di casa”, “casa in”, “hai visto che la casa”).

Tutto ciò è legato a strategie di processing (decodificazione) dei messaggi linguistici, per cui la strategia di base è quella di aspettarsi che lo specificante venga prima dello specificato o viceversa; i bambini giapponesi che usano un lingua di tipo b imparano la loro lingua materna nelle stesse condizioni e nelle stesse sequenze temporali (entro i 3-4 anni) dei bambini italiani che usano una lingua di tipo a. Non ci sono dunque grosse differenze cognitive, e anche questo sembra un riflesso prebabelico.

4. Per dimostrare che questi tipi armonici si possono considerare -per così dire- come i piani segreti di Babele, porto ad esempio l’uso della frase relativa nel turco e nel basco, due lingue che organizzano la frase secondo il tipo b. Si tratta di lingue che non discendono dalla stessa origine e che non hanno mai avuto contatti tali da far pensare ad una possibile influenza reciproca (il turco è arrivato in Europa nel Medioevo, mentre il basco è la più antica lingua europea, precedente addirittura la indoeuropeizzazione dell’Europa).

a)  Turco

Hasan-in         Sinan-a   ver-dig-i                     patates-i                         yedim

Hasan-di           Sinan-a          dare-participio-mio          patata-accusativo             mangiai

“Mangiai la patata che Hasan diede a Sinan

b)  Basco

Gizona-k                   emakumea-ri        eman         dio-n                    liburua

uomoil-ergativo            donna-a                 dato             ha-relativo           libro

Il libro che l’uomo ha dato alla donna

 

Nel turco, il termine patates-i è messo prima della testa della frase relativa; il basco mette liburua a fine frase e la specificazione relativa è spostata prima (“l’uomo ha dato alla donna che”). Si vede come le regolarità di costruzione delle grammatiche delle lingue rispondano alla nostra predisposizione cognitiva alla comunicazione linguistica e come, allo stesso tempo, pongano delle restrizioni alla confusione delle lingue.

 

b. L’acquisizione delle lingue

Riferimenti bibliografici:

Cook, Vivien J., 1990, La grammatica universale, Bologna, Il Mulino;

vari lavori di Noam Chomsky e del generativismo;

Bickerton, Derek, 1981, Roots of language, Ann Arbor, Karoma.

I principi che regolano la costruzione della grammatica possono essere visti, in linea di massima, come il risultato dei processi di acquisizione delle lingue. Sono state fatte diverse ipotesi collegate con gli studi sugli universali.

 

1. In primo luogo consideriamo l’apprendimento delle lingue prime, quelle che i bambini imparano spontaneamente da chi si prende cura di loro. Secondo un’ipotesi forte, che fa capo a Noam Chomsky, nel nostro patrimonio genetico si troverebbe una sorta di Grammatica Universale, estremamente astratta, la quale sarebbe costituita da principi di strutturazione di validità generale, che non variano tra lingua e lingua, e da parametri, aspetti di struttura che, viceversa, possono variare tra le lingue. In sostanza, nel nostro patrimonio genetico sarebbe già compresa la contraddizione babelica: da una parte avremmo in noi la condizione prebabelica, quella dei principi, e dall’altra l’espansione postbabelica, quella dei parametri.

I principi di strutturazione, estremamente astratti e generali, che possono corrispondere agli universali assoluti di cui punto a.1, ci dicono, quando siamo bambini: intorno a te cerca una lingua che abbia vocali orali. Dentro il nostro patrimonio genetico, inoltre, ci sarebbero principi tali per cui una lingua ricorre a certi spostamenti di parole all’interno della frase, ma non esprimerebbe mai certi significati operando solamente sullo spostamento di parola: per esempio, non ci sarebbe nessuna lingua che, per negativizzare una frase cominci dall’ultima parola per poi tornare indietro, per cui, se si dice “la casa è bella”, non si potrebbe dire, per esprimere la negazione, “bella è casa la”.

I parametri, invece, sono stati paragonati ad una sorta di interruttore con due posizioni: il bambino, grazie ai parametri, osserva la lingua che viene parlata intorno a lui e «setta», fissa l’interruttore, in base alle caratteristiche della lingua. Un esempio di ciò l’abbiamo già visto al punto a.3: i due tipi armonici corrispondono a due diversi «settaggi» del parametro (si chiama «parametro della testa»), per cui il bambino impara che tutto ciò che specifica viene prima o dopo e quindi accende o spegne l’interruttore. Un altro parametro molto studiato è quello del «soggetto nullo», che differenzia ad esempio l’italiano dall’inglese: il bambino assorbe la necessità che una frase abbia un soggetto - come in inglese - oppure verifica che può farne a meno - come in italiano.

 

2. Una seconda ipotesi, più legata a dati empirici, ancorché non direttamente osservabili, è quella propugnata da Derek Bickerton, chiamata «ipotesi del bioprogramma linguistico». Secondo questa ipotesi, ci sarebbe un vero e proprio programma biologico che determina la forma assunta dalla lingua. Questa teoria si avvicina solo in parte a quella precedentemente enunciata. Qui vengono osservate le cosiddette lingue “creoli”, sorte in diverse parti del mondo in seguito all’imperialismo europeo, a partire dal XV sec., e ai due o tre secoli di schiavismo e di deportazione dall’Africa verso le Americhe. In queste drammatiche situazioni, si venivano a trovare mescolate persone di provenienza e lingue diverse (una vera e propria situazione babelica), che in qualche modo dovevano pur comprendersi. L’unica soluzione era assumere quel poco che riuscivano a comprendere del linguaggio dei colonizzatori. Una volta arrivati nelle Americhe e ritornati ad una situazione familiare, da queste persone sono nati bambini i quali non avevano un modello a cui fare riferimento nell’apprendimento della lingua, in quanto i genitori si esprimevano in una lingua rudimentale. Questi bambini cioè non avevano la possibilità di correggere i propri errori. L’osservazione di queste lingue -secondo Bickerton- permette di valutare il “decantato” della nostra capacità linguistica. Di fatto queste lingue, che vengono tuttora parlate, hanno una struttura grammaticale molto simile, nonostante derivino da un retroterra lessicale e storico diverso. Il bioprogramma sarebbe quindi responsabile delle somiglianze tra i creoli nate in seguito all’espansione coloniale europea. Esso programmerebbe, tra le altre cose, la distinzione semantica tra stati (p. es. “essere biondo”) e processi (p. es. “camminare”, “mangiare”). In tutti i creoli la base lessicale dei verbi di stato è sempre intesa al presente, mentre quella dei verbi di processo è sempre intesa al passato (p. es., nel saramaccano, lingua creola del Suriname, Mi njàn, “io mangiare”, viene interpretata come “io mangiai”, mentre Mi lòbi, “io amare”, significa “io amo”).

Un caso analogo lo si può verificare anche nell’apprendimento spontaneo delle lingue straniere (o seconde), da parte di immigrati, che le imparano per la strada. Anche qui si può ritrovare uno stadio di apprendimento molto precoce, che in molti casi rimane tale, estremamente semplice dal punto di vista grammaticale, ma efficace dal punto di vista comunicativo, stadio che Wolfgang Klein, uno dei maggiori studiosi europei di questi fenomeni, ha chiamato basic variety, cioè “varietà di apprendimento basica”, che sembra ritrovarsi secondo gli stessi principi nonostante la lingua diversa che si impara.

 

c. La diffusione delle lingue nel mondo: genetica delle popolazioni e archeologia

Riferimenti bibliografici:

Cavalli-Sforza, Luigi Luca, 1996, Geni, popoli e lingue, Milano, Adelphi;

diversi contributi in Longobardi, Giuseppe (a cura di), Le lingue del momdo, Quaderni de “Le Scienze”, 108;

Nettle, Daniel, 1999, Linguistic diversity, Oxford, Oxford University Press.

1. Dopo aver considerato le lingue  dal punto di vista della loro unitarietà e delle limitazioni che la varietà linguistica possiede grazie a questi principi che sottendono alla costruzione della grammatica e che sono ancorati nei processi di acquisizione delle lingue, possiamo ora valutare ciò che è successo nella dispersione post-babelica. A questo riguardo, ci sono diverse ricerche che vanno intensificandosi e risultati ottenuti indipendentemente in anni passati che vanno ora integrandosi. Essi derivano da diversi settori: quello della genetica delle popolazioni umane, quello dell’archeologia, quello della paleoetnografia e quello dell’antropologia. In base ai risultati integrati di questi studi, possiamo immaginare la diffusione delle lingue nel mondo, a partire approssimativamente da 50.000 anni, secondo queste tappe:

1. Prime migrazioni: a. Khoisan (Africa meridionale); b. Nilo-sahariano; c. Caucasico; d. Austrico (penisola indocinese); e. Indo-pacifico; f. Australiano (lingue aborigene); g. Amerindio (America centro-meridionale).

2. Diffusione dell’agricoltura: a. Niger-Kordofniano (di cui fa parte la sottofamiglia bantu); b. Camito-Semitico; c. Indoeuropeo; d. Elamo-Dravidico (India meridionale); e. Sino-Tibetano (fra cui il cinese); f. Austronesiano.

3. Dispersione recente per cambiamenti climatici: a. Uralico (di cui fa parte il finnico e l’ungherese); b. Chukchi-kamchadal (estremo oriente siberiano); c. Eskimo-Aleutino (America settentrionale); d. Na-Dene (Canada-Stati Uniti, p. es. il navajo).

4. Dominanza di élite: a. Altaico; (b. Indoeuropeo orientale).

Le prime migrazioni dall’Africa (1), ormai accettate da tutti come la fonte del genere umano, avrebbero dato origine alle lingue riportate in 1a-g. Questa situazione si sarebbe protratta per circa 40.000 anni.

In seguito (2), si sarebbe verificata una nuova ondata di diffusione linguistica, diversa dalla precedente, collocabile nel neolitico. La principale fonte della creazione di nuove famiglie linguistiche sembra sia stata la diffusione dell’agricoltura. Si tratta delle lingue riportate in 2a-f.

A queste lingue si sarebbero aggiunte, più recentemente, a seguito di una favorevole mutazione climatica, lingue parlate prevalentemente nell’estremo nord, riportate in 3a-d.

Esiste infine un ultimo modello di diffusione linguistica, più limitato e più recente, cioè lingue che si sarebbero diffuse tramite imposizione linguistica da parte di piccoli gruppi di pastori nomadi. Il latino, che ha dato origine alle lingue romanze, è un esempio di diffusione a dominanza di élite, così come l’arabo che si è diffuso dalla penisola arabica in tutta l’Africa settentrionale e, nel Medio Evo, anche in Spagna e in Sicilia.

2. Tutte le vicende storiche che hanno portato alla diffusione e alla diversificazione delle lingue nel mondo quanto più lontane erano dal territorio di irradiazione, vengono ora inserite in uno schema coerente di spiegazione della diversità linguistica in Linguistic diversity di Daniel Nettle. Questo schema, definito “teoria del rischio ecologico”, mette in relazione la diversità linguistica con il tipo di clima e di organizzazione sociale ed economica delle società agricole pre-industriali e delle società di cacciatori-raccoglitori. Facendo per esempio riferimento alla Nuova Guinea o al territorio fra savana e deserto nell’Africa Occidentale, egli sostiene che quanto più una comunità può disporre nella propria nicchia ecologica di tutto ciò di cui ha bisogno (per cui non c’è l’aspettativa di lunghi periodi di mancanza di cibo) tanto meno essa tenderà ad avere rapporti con altre comunità. Viceversa, quando questa condizione non sussiste, i rapporti tra comunità vicine sono più frequenti, al fine di favorire gli scambi di prodotti. Ciò spiegherebbe il motivo per cui la maggiore varietà linguistica attualmente si trova concentrata nella fascia equatoriale. Questo discorso vale solo fino al periodo precoloniale e pre-industriale, perché la rivoluzione industriale sta provocando nella diffusione linguistica una rivoluzione pari (sia pure con le debite proporzioni) a quella che è avvenuta, durante il neolitico, a seguito della diffusione dell’agricoltura. Ed è qui che giungiamo al paradosso che ha citato all’inizio.

 

d. Un paradosso: ritorno a Babele? Le lingue insidiate

Riferimenti bibliografici:

Grenoble, Leonoire A. / Whaley, Lindsay J. (eds.), 1998,

Endangered languages: language loss and community response, Cambridge, Cambridge University Press;

Dixon, R.M.W., 1997, The rise and fall of languages, Cambridge, Cambridge University Press.

 

La rivoluzione industriale, permettendo uno stile di vita poco rischioso dal punto di vista ecologico, con un’aspettativa di abbondanza di cibo pressoché perenne, attrae molti gruppi di popolazioni, che tendono a diventare parte dei gruppi che guidano la rivoluzione industriale. Accanto a ciò, si deve aggiungere che il progresso tecnologico, il mettere per iscritto la lingua per rapporti a vasto raggio crea una minore utilità di alcune lingue. Sembra che ci sia una perdita, sempre più drammatica, di un certo numero di lingue “insidiate”.

Questa situazione è valutata con estremo pessimismo anche dalle stime più realistiche. Possiamo partire da un numero di circa 5273 lingue (di cui 4794 parlate e 479 estinte), valutate per eccesso dal manuale di classificazione di M. Ruhlen. Questo numero è in rapido decremento: le stime parlano di 12-15 lingue in meno ogni anno. Anche tenendo conto delle stime più ottimistiche, tra dieci anni il patrimonio linguistico sarà ridotto del 10% e alla fine del XXI secolo le lingue parlate saranno solamente 100: saranno, molto probabilmente, le lingue che hanno una forma scritta, il maggior numero di parlanti e una solida potenza economica e politica alle spalle. Qualcuno dice addirittura che si arriverà ad avere al massimo due lingue parlate in tutto il mondo.

Si tratta di una perdita simile a quella che si lamenta per varie forme di flora e di fauna, una perdita che va nella direzione di un venire meno di una ricchezza della creazione. Pertanto, chi ci seguirà nel prossimo millennio se parlerà con un solo labbro, lo farà a scapito dell’intenzione divina iniziale.

 

Conversazione tenuta presso la Fondazione Serughetti La Porta il 22 novembre 1999

Testo ripreso dalla registrazione e da appunti dell’Autore, non rivisto dall’Autore


 

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